Racconto pubblicato nell’ottobre 2016 sul sito “Sapore di Cina”.
Sono circa le dieci del mattino quando usciamo dall’albergo nelle vicinanze del centro di Harbin e ci rechiamo frettolosamente verso la più vicina fermata di autobus alla ricerca del bus numero 338 che, secondo la mappa turistica presa la sera precedente in un hotel vicino alla stazione, ci deve portare al museo dell’Unità 731.
“Se siamo fortunati passa proprio da qui” – penso – mentre, mano nella mano con mia moglie Yan, attraversiamo la strada e ci accingiamo a controllare il cartello informativo che, immediatamente, spegne le mie speranze.
Ci guardiamo intorno alla ricerca di qualcuno che può darci informazioni e la persona più affidabile ci sembra un ragazzo con le cuffiette e l’iPhone che presumo ascolti della musica.
Lo avvicino e nel mio cinese stentato gli chiedo se conosce la fermata più vicina per il nostro autobus. Non la conosce ma è molto disponibile e, dopo un rapido controllo sul cellulare, rivolgendosi a mia moglie e ignorandomi completamente, spiega la direzione da prendere e l’itinerario da percorrere.
“E’ a circa 20 minuti da qui” – mi spiega Yan in inglese (fra noi parliamo inglese per le questioni più complesse e cinese per quelle più semplici) – “ma arrivati nei pressi di un certo incrocio dovremo chiedere.”
“Bene!” – penso mentre ci incamminiamo nella direzione indicata.
Ma in Cina spesso le cose non sono mai come immagini e infatti, dopo diverse richieste di info e conseguenti inversioni di percorso, numerosi e pericolosissimi attraversamenti “autostradali” (in primo luogo perché talvolta le strade sono talmente larghe che l’Autostrada del Sole al confronto potrebbe essere usata dai bimbi come pista per le loro macchinine ed in secondo luogo perché il pedone in fondo è considerato alla stregua di un moscerino) fra automobili sfreccianti, autobus, camion, motorini e biciclette, contromano e non, carri, carretti, ed un fragore assordante e continuo di clacson, erano trascorsi già 30 minuti e della fermata nemmeno l’ombra.
Ad un certo punto mi rendo conto che stiamo cercando la stazione degli autobus e non la fermata del 338 ed allora realizzo che o non avevo capito prima (visto il livello del mio cinese) o che mia moglie aveva autonomamente cambiato i piani e non aveva fatto gran caso ad avvisarmi.
Dopo circa 45 minuti giungiamo alla stazione ed iniziamo a controllare tutte le fermate dei bus ma niente, chiediamo intorno e ci consigliano di prendere un taxi.
Ma non fa per noi.
Infine, un signore anziano seduto lì vicino, in una lingua a noi incomprensibile, ci indica una direzione.
La seguiamo e finalmente intravedo da lontano un bus 338.
Ci avviciniamo, Yan chiede al conducente il costo della tratta e questi, senza alzare lo sguardo dal cellulare, blatera qualcosa, saliamo sul mezzo, mia moglie versa 2 Yuan e prendiamo posto sui sedili in fondo al bus.
Sono le ore 11,05 circa ed i venti minuti iniziali sono triplicati.
Dalla stazione dei bus (che alla fine è molto vicina alla stazione dei treni) fino al distretto di Pingfang dove sorgeva la base operativa dell’Unità 731 e dove oggi è ubicato il museo (all’interno della base edificato su uno dei ruderi degli edifici originali) occorre circa un’ora.
Lungo il tragitto mi accorgo di qualcosa di inconsueto: dopo le prime fermate in cui gli utenti salgono dalla porta anteriore del bus e scendono da quella centrale, ad un certo punto le cose si invertono (salgono dalla centrale e scendono dall’anteriore) ed inoltre mi rendo conto che quelli che stanno salendo vanno a sedersi e non pagano il biglietto.
Non riesco a credere ai miei occhi (in quattro anni che frequento la Cina solo una volta una ragazza non ha pagato il biglietto fra le proteste furiose dell’autista e le promesse della ragazza che avrebbe pagato alla discesa, ma non so come è andata a finire perché io sono sceso prima) e rivolgendomi a mia moglie (in inglese) dico: “Guarda, questi qui non hanno pagato il biglietto.”
Lei, che nel frattempo stava riposando, dischiude gli occhi, mi fa un sorriso fra l’ironico ed il compassionevole e richiudendoli mormora: “Impossible…”
Avrà ragione lei… “it’s impossible”, io l’ho visto con i miei occhi ma non replico.
La fermata Shuang Yong Lu (双拥路) è quella del museo, si scende ancora dalla porta anteriore, percorriamo il corridoio e, in prossimità dell’uscita, con un balzo sono fuori.
Sento urlare l’autista, mi volto e ce l’ha con me ma non capisco una parola.
Yan, ancora sull’autobus, mi dice che dobbiamo pagare il biglietto per scendere e tira fuori 2 Yuan dal portafoglio.
Non posso crederci.
Protesto concitatamente in un inglese incomprensibile a chiunque e perfino a me stesso.
“Ma come? Finora quelli che sono saliti non hanno pagato e noi paghiamo sia per salire che per scendere? Ma non si è mai visto… noi abbiamo pagato prima!”
Il conducente continua ad urlare, io continuo a protestare vibratamente, la mia compagna mette i soldi nel “box” dei pedaggi e scende.
La guardo nervoso mentre il bus riparte e le chiedo il perché e mi risponde che l’autista aveva accennato qualcosa del genere quando eravamo saliti ma lei non ci aveva fatto molto caso.
Resto contrariato ma non mi va di rovinarmi la giornata per 2 Yuan così la chiudo là e, mano nella mano, ci avviamo al museo.
Non è lontano, basta voltare l’angolo e proseguire per un centinaio di metri circa.
Una moderna costruzione terminata di realizzare nel 2015 dal famoso architetto cinese He Jing Tang (何镜堂) si presenta ai nostri occhi.
L’ingresso è gratuito, posso fare tutte le foto che voglio ma devo buttare in un cesto la bottiglietta di acqua che porto nello zaino.
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Nel settembre del 1931 il Giappone invade la Manciuria e, nell’anno seguente, crea il governo fantoccio di Manciukuo sotto la guida formale dell’imperatore Pu Yi.
Nel 1936 nasce, nei pressi di Harbin, l’Unità 731 posta sotto il comando del microbiologo ed ufficiale medico dell’esercito giapponese Ishii Shiro, grande sostenitore dei vantaggi che una guerra chimico-batteriologica avrebbe potuto portare all’impero nipponico così povero di risorse ma così ricco di ambizione.
Nel luglio del 1937 il Giappone invade la Cina dando inizio alla seconda guerra sino-giapponese che coincide con l’inizio della seconda guerra mondiale nel Pacifico.
Nel 1939 la base dell’Unità 731 viene trasferita nel distretto di Pingfang, dove adesso sorge il museo, e verrà per lo più distrutta nel 1945, prima della resa incondizionata del Giappone che poneva così fine alla seconda guerra mondiale, allo scopo di nascondere le prove dei crimini commessi al suo interno.
L’Unità 731 si occupava di esperimenti su piante, animali ed esseri umani.
Le atrocità perpetrate dall’Unità 731 ai danni dei civili e dei prigionieri di guerra sono inenarrabili e potrebbero far impallidire addirittura i nazisti di Auschwitz!
La Manciuria brulicava di materiale umano a “buon mercato”: i cinesi infatti erano considerati una razza inferiore e valevano poco più di niente, venivano chiamati “maruta” che significa “ceppi di legno” (pare che l’origine di questo termine sia dovuto al fatto che la base era ufficialmente indicata come segheria), identificati mediante un numero a tre cifre ed utilizzati come cavie per i più svariati ed inverosimili esperimenti.
Donne e uomini, giovani e vecchi, bambini, donne gravide, principalmente di nazionalità cinese ma, in misura notevolmente inferiore, anche coreani, mongoli, russi, inglesi ed americani, furono oggetto (nel senso più vero del termine) di sperimentazione da parte dell’Unità 731: vivisezione senza anestesia (perché l’anestetico poteva alterare i risultati), esperimenti di congelamento e scongelamento, di esposizione a elevate fonti di calore, di amputazione, di escissione di organi, di asfissia, di annegamento, di sospensione di cibo ed acqua, di contaminazione con agenti patogeni (colera, antrace, dissenteria, botulismo, tifo, tetano, salmonella, tularemia, peste e tanti altri ancora), di compressione e la lista è ancora e purtroppo molto lunga.
Esperimenti in campo aperto con quei poveri sventurati legati a dei pali e bombardati con bombe chimiche e batteriologiche al fine di testare gli effetti delle armi messe a punto nei laboratori.
In diversi casi, inoltre, l’Unità 731 portò attacchi biologici contro i villaggi civili avvelenando le coltivazioni, le acque, il cibo o liberando animali infetti e provocando dolore e morte.
Il museo racconta tutto questo orrore!
Seguendo un percorso che si estende su tre grandi aree, e si divide in diversi padiglioni espositivi, ci si immerge a capofitto in immagini, filmati, ricostruzioni scenografiche, racconti, documenti, testimonianze, pentimenti, rapporti ufficiali, report, bollettini, annotazioni, appunti, oggetti quotidiani, siringhe, contenitori, maschere a gas, presentati in maniera certamente originale, moderna ed estremamente coinvolgente.
Ogni reperto, ogni racconto, ogni documento è presentato in cinese ed in inglese.
Non è il “solito” museo in cui passeggiare distrattamente osservando con maggiore o minore attenzione gli oggetti esposti ma è un museo che ti costringe a leggere, ascoltare, approfondire.
E’ un museo che ti costringe a pensare agli orrori di cui è capace la mente umana, orrori studiati a tavolino per soddisfare sentimenti di superiorità e di potenza o, talvolta, anche solo per appagare curiosità pseudo-scientifiche.
Non sono presenti strumenti di tortura particolari ma strumenti della quotidianità di un qualunque laboratorio di analisi che, nelle mani degli sperimentatori, si trasformano in crudeli e raccapriccianti arnesi di sofferenza.
E ci si aspetterebbe che, avendo il Giappone perso la guerra, questi criminali assassini avessero ricevuto la giusta punizione ma poi si scopre che, nel 1947, Shiro Ishii ed altri membri dell’Unità 731 barattarono l’immunità con gli USA in cambio dei risultati delle loro ricerche e che soltanto 12 criminali legati all’Unità 731 furono processati e condannati nel 1949 a Khabarovsk (Unione Sovietica).
Che VERGOGNA!
Prima di uscire dal museo è possibile lasciare una dedica su delle lavagne elettroniche o acquistare libri e qualche gadget nello shop appositamente dedicato.
Dopo l’uscita si possono visitare gli uffici del personale nipponico (che si sono conservati bene) e fare un giro per osservare alcuni ruderi ancora in piedi.
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Sono passate circa tre ore e mezzo da quando siamo arrivati a Pingfang e dobbiamo tornare indietro perché alle 17,26 ci aspetta il treno per Changchun.
Siamo stanchi, affamati ed assetati ma è troppo tardi per fermarsi a prendere qualcosa e ci dirigiamo a passo spedito verso la fermata del 338 che ci riporterà in stazione.
Nel salire sull’autobus mia moglie chiede spiegazioni all’autista circa i costi e le modalità di pagamento del biglietto e riceve la conferma che si paga 1 Yuan a testa sia quando si sale che quando si scende.
Già dopo un paio di fermate i conti non tornano e diverse persone scendono senza pagare nulla e, dopo ancora un paio di fermate, si inverte l’entrata con l’uscita.
La fermata successiva salgono due ragazze e tre uomini: uno dei tre uomini è alto, tarchiato, imponente e si siede proprio davanti al mio sedile, gli altri due si accomodano sui sedili in corrispondenza dei nostri mentre le due ragazze poco più avanti.
Nessuno paga niente!
Ci guardiamo increduli ma credo di aver capito e, proprio nell’istante in cui mi volto verso la mia compagna per rivelarle la mia intuizione, lei si rivolge al gruppetto chiedendo lumi in merito.
Ne nasce una simpatica chiacchierata a cinque cui solo io e l’uomo seduto davanti a me non prendiamo parte e che, comunque, dà ragione al mio intuito: si paga in sostanza un biglietto chilometrico che viene gestito attraverso lo scambio delle porte di entrata e di uscita dall’autobus.
In pratica, nelle fermate intermedie si sale dalla porta centrale e si paga solo quando si scende dalla porta anteriore, invece, nelle fermate agli estremi della tratta si sale dalla porta anteriore e si paga la prima volta e poi si pagherà o meno una seconda volta a seconda della porta che si aprirà alla fermata interessata.
Sistema ingegnoso ma non facilmente intuibile per un turista.
Ovviamente dal pagamento dei pedaggi alle domande sul “laowai” (straniero) il passo è breve, direi quasi obbligato.
“Da dove viene?”, “ah italiano… e che cosa fa?”, “quanti anni ha?”, ”e vivete in Cina o in Italia?”, “ah in Cina… e in quale città?”
“Zhuhai” risponde mia moglie e qui “l’interrogatorio” subisce una battuta d’arresto perché adesso bisogna individuare dove si trova Zhuhai.
“Nel Guangdong” prosegue mia moglie.
“ah… Shenzhen” dice uno dei due uomini alla mia sinistra, “Guangzhou” ribatte l’altro.
Ma sono indecisi e così voltandomi verso di loro decido di intervenire: “Cong Guangzhou dao Zhuhai chabuduo 150 gongli… ah” (da Guangzhou a Zhuhai sono quasi 150 km) e quel “ah” finale tradisce le mie origini cantonesi.
Cambiano faccia e l’uomo più vicino a me si sposta sul sedile appena dietro il mio e con un sorriso tra lo stupito ed il divertito mi chiede: “Ni hui jiang zhong guo hua ma?” (puoi parlare cinese?), “Yi dian dian” (un poco) rispondo e mi ricompongo sul sedile.
Nello stesso frangente, il colosso che sedeva davanti a me si volta indietro e senza dire nulla mi fissa da dietro i suoi occhiali a specchio stile “Ray-Ban”.
Lo fisso anch’io da dietro i miei occhiali da vista ma non vale, per lui è più facile, ed infatti vince agevolmente anche perché sono distolto dal rumore di uno scatto fotografico col cellulare.
E’ l’uomo dietro di me che ha scattato una prima foto ma non gli piace e così mi passa il braccio intorno al collo, avvicina la testa alla mia, allunga la mano con il cellulare e produce un secondo scatto ma anche questo non è di suo gradimento.
Decido allora di collaborare (tanto non posso fare diversamente) ed afferro il suo telefonino per fare uno scatto, ci abbracciamo, sorridiamo e… click.
Fortuna che questa volta gli piace; ci scambiamo il QQ number e ci giuriamo eterna amicizia.
Siamo al capolinea e mancano circa 55 minuti alla partenza del treno per Changchun ma dobbiamo assolutamente mangiare qualcosa (non dovrebbe essere un problema, in Cina si mangia a qualunque ora del giorno e della notte).
Entriamo in un primo ristorante ma a mia moglie non piace, dice che è sporco (in realtà penso non le piacesse il menù), entriamo in un secondo ed il cuoco è andato via, proviamo con un terzo, hanno del “hei mi zhou” (黑米粥, letteralmente porridge di riso nero), ne prendiamo due anzi no… solo uno, ho cambiato idea (mentre lo versano nella ciotola il cameriere ci infila il pollice dentro e mi passa la voglia ma quando lo dico alla mia compagna mi guarda come se fossi un alieno).
La sera precedente avevo visto un posto vicino alla stazione dove poter mangiare i “chao mian” (noodles) perciò mi consolo al pensiero che da lì a poco avrei messo qualcosa nello stomaco.
“Dovrebbe mangiare,” dice il titolare del locale a mia moglie – “è così magro…”, lei mi traduce e io lo ringrazio ma gli dico di non preoccuparsi, che avrei mangiato la sera.
Mi guarda come si può guardare un “laowai” che non mangia pur essendo affamato. Finalmente usciamo dal locale, mancano 28 minuti alla partenza, bisogna fare in fretta.
Mi precipito nel ristorante e scelgo un piatto di noodles a caso: “yi ge chao mian… ah”.
Il servizio è istantaneo, ingurgito con foga i tre quarti del piatto e corriamo in stazione con il cuore in gola, il bisogno urgente di un bagno e… i biglietti che non si trovano!
Ma questa è già un’altra storia…