Racconto pubblicato nel dicembre 2016 sul sito “Sapore di Cina”.
Il treno che da Zhenyuan ci porterà a Kaili impiegherà circa un paio di ore, è partito da chissà dove ed arriverà a Guiyang trasportando una folla enorme e variopinta di persone.
Attraversare il corridoio per raggiungere il mio posto tra una selva di corpi, afa, sudori e valigie è quasi un’impresa e quando arrivo è occupato da un signore che sdraiato dorme di grosso.
“Ni hao” – dico gentilmente avendo cura di mostrare il biglietto prima alla moglie e poi a lui, che nel frattempo è stato svegliato dalla compagna con due colpi di mano sulla gamba, ha aperto gli occhi e mi guarda imbambolato.
Si sposta e mi fa sedere, mi scuso per averlo disturbato, mi guarda, accenna un sorriso (non è detto che abbia capito le mie parole) e si mette a mangiare delle caramelle.
Il viaggio prosegue senza intoppi e scendiamo a Kaili intorno a mezzogiorno.
Attorniati da tassisti abusivi che vorrebbero spillarci molti più soldi del dovuto, cerchiamo la biglietteria dei bus e ci mettiamo in coda per acquistare i nostri biglietti.
Fuori il sole è alto, ci sono oltre 35°, non abbiamo mangiato ancora niente e non c’è il tempo di farlo perché il nostro mezzo è in partenza tra poco meno di 20 minuti.
Compro una bottiglia di té verde al volo e ci rechiamo all’ingresso della stazione delle corriere dove un moderno e confortevole autobus ci aspetta.
Incastro con forza gli zainetti nel portabagagli sopra i nostri sedili, prendiamo posto trovando ristoro al fresco dell’aria condizionata e chiudo gli occhi.
Dura poco.
Un improvviso trambusto mi costringe a riaprirli appena in tempo per vedere tutti gli altri scendere di corsa dal mezzo.
“Ma che succede?” – chiedo a mia moglie Yan.
“Andiamo, andiamo, prendi gli zaini e seguimi, è arrivato l’autista ma è salito sul bus a fianco” – mi risponde agitata.
“Ma porca miseria…” – impreco mentre recupero gli zaini che faticosamente avevo incastrato e mi precipito sull’altro veicolo che era già in moto.
Vecchio, sgangherato, scomodo e forse anche un po’ sporco è questo il pulmino che ci porterà a Langde, villaggio Miao del Guizhou, dove, pensando di trascorrere la notte, abbiamo già prenotato una camera.
Il popolo Miao ha una storia di oltre 4000 anni ed è una delle 55 minoranze etniche ufficialmente riconosciute dalla Repubblica Popolare Cinese, dotato di una propria lingua (che si divide in almeno 3 dialetti principali) e di una forma di scrittura basata sul metodo pinyin, nata soltanto intorno alla metà del secolo scorso.
Tradizionalmente nomade ha perduto sostanzialmente questa peculiarità in anni recenti (‘900) insediandosi perlopiù stabilmente nella provincia cinese del Guizhou (tuttavia gruppi Miao sono presenti anche nelle province e nazioni confinanti ed una parte è migrata addirittura in occidente).
L’attività principale è la coltivazione di sussistenza del riso e del mais, i cui tempi scandiscono i ritmi delle giornate durante l’arco dell’anno, poi viene l’allevamento di animali da cortile e di suini.
Un ruolo importante ricoprono la tessitura e gli elaborati ricami che arricchiscono e completano i pittoreschi vestiti tradizionali e la creazione di eleganti gioielli in argento, simboli di distinzione e di ricchezza, la cui realizzazione esige una raffinata ed esperta manualità.
Particolare l’acconciatura dei capelli delle donne talvolta arricchita con l’utilizzo di sciarpe, foulard e fiori.
Ballo e danza sono importanti e sono generalmente legati ad eventi significativi della vita: matrimonio, morte, amore ma anche svago e divertimento.
Alla base della dieta alimentare vi sono riso e mais soprattutto, ed ancora grano, sorgo, verdure ed ortaggi vari, carne (principalmente di pollo e maiale), pesce.
La maggior parte dei piatti sono piccanti poiché la popolazione Miao adora il peperoncino.
Negli ultimi tempi ha preso piede l’attività turistica con varie forme di spettacoli appositamente dedicati, la nascita di nuovi affittacamere ed alberghi, la creazione di souvenir rivolti a soddisfare le esigenze di shopping dei turisti.
Gente ospitale, sorridente e generosa, all’arrivo degli ospiti al villaggio viene offerto loro del liquore di riso fatto in casa in segno di benvenuto.
Queste erano tutte le informazioni che avevo ricavato dalla mia ricerca prima della partenza oltre a sapere che, una volta scesi dal nostro mezzo, avremmo dovuto camminare per circa una mezz’oretta per raggiungere la nostra meta.
Ad un certo punto l’autista si ferma, ci fa scendere e fa inversione: siamo al capolinea.
Su un lato scorre un fiume, sovrastato da un tipico ponte Miao, e dall’altro lato, si inerpica su per la collina, un meraviglioso agglomerato di case di legno.
“Ecco il nostro hotel” – dice Yan indicando con l’indice della mano sinistra una costruzione recente sviluppata su due piani e con un’ampia veranda frontale con diversi tavoli e sedie.
“E’ questo?” – chiedo e poi continuo – “Ma non dovevamo avventurarci fra i campi per una trentina di minuti?” – ed ancora aggiungo – “Ma siamo già a Langde?”
Un cartello di benvenuto risponde alle mie domande e, zaini in spalla, ci avviamo verso l’albergo.
Sul lato destro dell’entrata, vicino a quella che sembra essere la porta esterna della cucina, una ragazza china per terra sciacqua delle scodelle; all’interno un gruppo di commensali, ormai a metà del pranzo, chiacchiera allegramente e alla reception non c’è nessuno.
Yan mi lascia il suo zaino e si reca alla ricerca del proprietario per prendere possesso della nostra camera mentre io mi guardo intorno estasiato dall’allettante profumino proveniente dalla cucina che mi fa pregustare la tanto attesa cena.
Ridendo sotto i baffi e visibilmente soddisfatto per quella che ritengo essere un’ottima sistemazione, penso: “Che odore delizioso… stasera mi sfondo…”
Circa una decina di minuti dopo, non vedendo mia moglie tornare, sudato, stanco e sempre con i due zaini in spalla, mi avvicino all’ingresso della cucina da dove provengono delle voci alterate ed, in quel mentre, vedo uscire mia moglie ed il proprietario palesemente irritati dopo quello che credo sia stato un acceso diverbio.
“Non ha la camera per noi” – mi dice Yan abbastanza nervosa.
“Ma non ci aveva dato conferma della prenotazione?” – chiedo.
“Sì” – mi risponde lei – “ma lui dice che ha fatto tutto la sorella e che la sorella non ci capisce niente e che lui le camere non le ha e adesso vede di trovarci un altro alloggio presso dei suoi parenti” – e poi aggiunge ancora più stizzita: ”Presumo che il furbo ha trovato da affittare la nostra camera ad un prezzo più alto e non si è fatto scrupolo di lasciarci in mezzo alla strada ed ora vorrebbe altri soldi per trovarci un letto”
Penso proprio che mia moglie abbia ragione e così, quando il tipo ci fa segno di seguirlo, lo mandiamo a quel paese e ci avventuriamo per il piccolo villaggio alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte.
Abitazioni con tetti a spiovere a due o più piani, costruite interamente in legno, staccionate, balconi, verande, salite e discese con pendenze più o meno accentuate, vicoli ciechi, “scalinatelle” e gradinate, spiazzi improvvisi, passaggi a larghezza d’uomo, galli, galline, paperi, cani, gatti, porcilaie, terra, pietre ammassate, qualche motorino.
Girovagare tra i viottoli lastricati di Langde, nonostante il peso dei bagagli, il caldo, la stanchezza che cominciava a farsi sentire e soprattutto l’ansia di trovare al più presto un alloggio poiché non ci sono più mezzi per tornare indietro, è affascinante.
Le persone sono cordiali, sorridenti, disponibili e ben presto ci rendiamo conto che non avremo problemi a trovare una sistemazione.
Una signora ci propone due camerette separate (uomo e donna non possono dormire insieme ci dice) con una “turca” esterna, una ragazza ci propone una grande stanza con 4 letti e bagno in comune, un’altra donna ci fa vedere una matrimoniale al 2° piano con bagno al 1°.
Tranquillizzati dalla numerosa presenza di posti letto continuiamo a cercare finché non giungiamo davanti ad un fabbricato che mia moglie riconosce essere il miglior “hotel” di tutto il villaggio.
Entriamo, non c’è nessuno ed iniziamo a chiamare a voce alta finché una vecchina, minuta ed aggraziata con i tipici capelli a crocchia delle donne Miao, ci si appalesa davanti e con modi garbati ci accompagna a vedere le camere e poi, dicendoci di scegliere con calma quella che preferivamo, ci lascia e torna alle sue occupazioni.
Il posto è grande ed accogliente, il panorama bello, le camere sono piuttosto delle sistemazioni di fortuna, ma hanno il bagno privato tutto per noi, e siamo indecisi tra un bilocale interno al fabbricato ed una cameretta che invece dà sulla risaia.
Mentre Yan si studia con cura i due alloggi, io, stanco e sudato, mi godo il panorama dall’ampio e confortevole balcone coperto al 1° piano, da cui si scorge la risaia della casa, parte del villaggio ed i monti retrostanti.
La base del parapetto funge da sedile e lì, proprio vicino a me, scorgo un vecchietto che mi guarda con occhi incuriositi e, sorridendomi, mi indica di sedermi accanto a lui.
Sorrido a mia volta, ringrazio e mi accomodo.
Iniziamo una conversazione incredibile fatta di sguardi, sorrisi, domande, risposte, altre domande, lunghi silenzi, qualche imbarazzo ed altre risposte.
Lui non capisce il mio cinese ed io non capisco il suo ma ci proviamo ugualmente.
E’ il proprietario (il marito della vecchina che ci aveva accolti) ed è colui che ha costruito tutto lo stabile, è stato certamente una persona importante del villaggio (forse uno dei capi) ed è stato promotore ed artefice, negli anni che furono, di un incontro in loco con una delegazione africana (non ho ben capito per cosa) e mi indica con orgoglio le foto in bella mostra alla parete.
Poi passiamo a parlare del riso, delle zucchine, dei peperoncini (intorno alla casa, oltre alla risaia, lungo tutto il terreno ci sono enormi piante di zucchina, ma anche pomodori e peperoncini) fino a quando non giunge mia moglie che, dopo aver scelto la camera (vista risaia) ed aver provveduto a prenotare la cena ad un orario imprecisato (quando la nuora dei proprietari tornerà a casa), è curiosa di visitare il villaggio.
Saluto il mio interlocutore e, mano nella mano, ci rechiamo a passeggio lungo le tortuose stradine.
In giro si vedono solo donne (presumo che gli uomini siano nei campi a lavorare) ed i turisti, facilmente riconoscibili sia per l’abbigliamento che per l’immancabile macchina fotografica, si contano sulle dita di una mano.
Nessuna veste gli abiti della tradizione con l’eccezione di un paio di ragazze che, nei pressi di uno degli ingressi, vendono souvenir.
Tutte, però, hanno i capelli neri a crocchia adornati con un qualche accessorio e tenuti fermi in ultimo da un pettine a forma di mezza luna.
Diverse donne sull’uscio di casa (qualcuna anche agli angoli dei viottoli in posizione, credo, più strategica) sono intente a rifinire ed a ricamare varie tipologie di manufatti tessili.
Non ci sono ristoranti ma in numerose case è possibile, dietro compenso, gustare un pranzo od una cena preparati al momento come se si fosse delle persone di famiglia.
Caratteristici i peperoncini stesi al sole e le numerose pannocchie di mais appese ad essiccare.
Gli unici negozietti si trovano intorno alla piazza circolare, posta proprio all’ingresso principale, dove avvengono nei giorni di festa le varie celebrazioni con canti e balli e dove, presumo, vengono accolti gli ospiti con il liquore di riso.
E proprio sulla piazza c’è il museo del villaggio al cui interno vedo esposte le foto del vecchietto con cui avevo amabilmente conversato.
“Caspita! Allora è veramente una persona importante!” – penso.
Le risaie ed i campi di mais sono appena fuori il villaggio aldilà del fiume ma è quasi l’imbrunire e rimandiamo la visita all’indomani mattina.
Rientriamo e terminata la cena Yan corre a fare una doccia ma non c’è acqua, né calda né fredda.
Quando i figli dei proprietari sono rientrati dal lavoro l’hanno consumata tutta e sarà nuovamente disponibile al mattino.
“Volevamo il villaggio?” – dico ridendo a mia moglie – “ed eccoci accontentati!”
Avesse potuto fulminarmi forse lo avrebbe fatto, recarci a Langde era stata una mia imprescindibile decisione.
La sera il villaggio è illuminato soltanto dalla luna e dalle luci delle case finché sono accese.
Non ci sono lampioni o qualche forma di illuminazione pubblica e, se ci si vuole addentrare per i viottoli, è bene avere una torcia che funzioni (non come la mia) per illuminare la via.
Alle 22,45 mia moglie va a letto ed io mi fermo sul ballatoio delle camere di fronte alla risaia, seduto su uno sgabello, i piedi sulla staccionata, una birra (avrei preferito del buon vino rosso), la luna ed il canto instancabile dei grilli.
La notte è ancora lunga ed io non ho alcuna fretta anche se, dopo una mezz’ora passata a contemplare la natura, penso sia meglio rientrare e dormire ma non prima di aver sciacquato i denti con la birra.
Alle 6,30 torna l’acqua ed è finalmente possibile tirare lo scarico e lavarsi.
Subito dopo siamo fuori e, reflex in pugno, ci avviamo a passeggiare tra le risaie ed i campi di mais dove trascorreremo le successive 4 ore.
Rientriamo giusto in tempo per fare i bagagli, acquistare qualche souvenir da regalare agli amici ed attendere il bus delle ore 12,00 che ci porterà a Kaili e da lì, via treno, a Guiyang.
Puntuale giunge alle 11,55, fa scendere i passeggeri, fa inversione, si accosta e ci fa salire.
Alle 12,25 non siamo ancora partiti e non si capisce il motivo del ritardo ma, ricevuta una telefonata, l’autista mette in moto ed in breve siamo nella parte bassa del villaggio a circa 6 km di distanza.
L’autista si accosta, spegne il motore, parla con una persona e poi scende dal veicolo e si allontana.
Altri passeggeri salgono a bordo e parlottano tranquillamente tra di loro, Yan si è mezza addormentata e, dopo 15 minuti, dell’autista nemmeno l’ombra.
Al rientro, mette in moto, fa inversione e si dirige nuovamente verso la parte alta del villaggio.
“Ma cosa fa?” – dico a Yan svegliandola dal torpore in cui era caduta – “ma sta tornando indietro…”.
Dopo appena 5 minuti siamo nuovamente al punto di partenza.
L’autista spegne ancora il mezzo e scende.
“Ta xiache weishenme?” (perché è sceso?) – chiedo ai presenti.
Si voltano a guardarmi sconcertati per il mio cinese e poi un uomo seduto vicino al posto guidatore mi dice qualcosa sorridendo.
Non lo capisco ma per fortuna c’è Yan.
“Ha detto che l’autista aspetta un amico” – traduce mia moglie.
Ringrazio sia per la risposta che per la traduzione.
Fortunatamente non abbiamo biglietto del treno perciò non andiamo necessariamente di fretta anche se preferirei arrivare quanto prima in stazione, mangiare qualcosa e partire per Guiyang.
Passati circa 10 minuti ripartiamo in tutta fretta.
“Speriamo sia la volta buona!” – mi dico un po’ spazientito.
Ad un certo punto, lungo la strada, il pulmino si accosta e si apre il portellone.
Vedo dapprima una ruota, poi il manubrio, quindi tutta la bicicletta ed infine un tonico ciclista che sale e prende posto mantenendo la bici con una mano.
Sono circa le 13,00 e noi siamo ancora qui, tra “Langde alta” e “Langde bassa”, per aspettare uno che aveva partecipato ad una gara ciclistica ed ora non aveva voglia di pedalare per tornare indietro.
Sento una risata di scherno.
Mia moglie si avvicina al mio orecchio e, continuando a ridere, mi sussurra: “Volevi il villaggio?…”